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RELAZIONE TRA AGROFARMACI
- API - UOMO
Come e perchè le Api muoiono.
Da quando, inizio anni '50
con l'introduzione della cosiddetta "rivoluzione verde" - altro termine
fuorviante - è stato sviluppato il concetto di dannosità degli organismi
fitoparassiti, in nome dell’incremento produttivo e della difesa delle colture,
si è volutamente disconosciuta la funzione bioindicatrice svolta da queste forme
di vita. Lo sbilanciamento nella presenza di insetti di una specie non è niente
altro che rivelatore delle alterazioni ambientali prodotte dall’uomo.
E come per annullare il loro ruolo di accusatori nei nostri confronti si è dato
avvio a quell’incredibile biocidio chimico che ora si rivolta proprio contro di
noi, veri bersagli dell’uso improprio dei fitofarmaci.
A prima vista può sfuggire il rapporto causa-effetto fra uso dei fitofarmaci e
perdita di diversità biologica, tuttavia basta soffermarsi sulle attuali
esigenze produttive per comprendere come l’abuso della chimica ci costringa a
ricorrere a palliativi e da surrogati per supplire i vuoti biologici che si sono
venuti a creare. Ed in questo le api ci aiutano a capire. L’85% delle piante da
cui traiamo nutrimento dipendono dai pronubi e quasi l’80% della produzione
agricola italiana in qualche modo beneficia del loro lavoro.
Tuttavia ormai gli impollinatori naturali sono pressoché scomparsi dai nostri
agrosistemi specializzati e per far fronte alle malintese esigenze produttive si
bruciano sempre più energie fossili non rinnovabili: più chimica, più petrolio,
meno vita. Siamo all’apice della speculazione sul dissesto ed ormai la passività
del bilancio energetico è proporzionale al deficit biologico: mentre continuiamo
a sprecare enormi energie con il risultato di distruggere anche gli organismi
utili, siamo anche costretti a spenderne in sovrappiù per riprodurne di
sostitutivi nelle bio-fabbriche.
Le api, in questo contesto, diventano uno strumento per misurare la nostra
dabbenaggine: le sterminiamo con irresponsabili trattamenti chimici, ma nel
contempo le alleviamo perché indispensabili per l’impollinazione. Ormai
rappresentano l’unico pronubo realmente disponibile.
Per chi ha a cuore l’ambiente, fare il punto sul rapporto intercorrente fra Api
e Fitofarmaci rappresenta dunque un’ulteriore occasione per riflettere
sull’opportunità di spostare le tematiche dall’ambito salutista a quello
eco-consumerista.
Questa parola, linguisticamente orrenda, individua un modo di consumare e di
produrre,eco-compatibile: quindi implicitamente ed inevitabilmente anche
salutista, ma non più come scelta individuale, bensì come impegno sociale. In
questo modo le api, da esclusivo patrimonio degli apicoltori, diventano di
tutti, agricoltori, consumatori e cittadini, e si trasformano in uno strumento
per interpretare diversamente il mondo che ci circonda. E così, partendo
dall’apporto economico delle api quali impollinatori, di produttori di alimenti
e di agenti della conservazione ambientale, si arriva a scoprirle anche come
simbolo della cultura della non violenza, unica ed ultima possibilità per
riuscire ad immaginare ancora un futuro:“le api operano la trasformazione non
distruttiva di polline e nettare, risorse ambientali rinnovabili”. L’ambizione,
o l’ardire, di porre un insetto al centro della nostra vita, nasconde la
presunzione di far lentamente passare un messaggio di rispetto per ciò che è
diverso da noi. L’ape diventa così un soggetto politico, una specie di Spartacus,
un simbolo di resistenza e di affrancamento dalle prevaricazioni.
Rispettare le api vuol dunque dire rispettare l’ambiente, quindi tutti gli
insetti (pronubi e non), le altre forme di vita animali e vegetali, i sassi, il
mare. Ma anche il collega, l’extracomunitario, il vicino di casa, l’handicappato
o l’avversario politico. Per queste ragioni diventa importante agire con
consapevolezza, quindi anche scegliere se e come effettuare un trattamento
chimico, assumendosi le responsabilità derivanti dalle eventuali conseguenze
sull’ambiente e sulle altre forme di vita. Ovvio che tale impegno non può, come
al solito, essere interamente scaricato sull’ultimo anello della catena: se gli
agricoltori appaiono (o sono fatti apparire) come gli esecutori materiali, ben
altri sono i mandanti.
Già alla fine dell’800 fu segnalato negli Stati Uniti (1881) il primo caso di
avvelenamento di api in seguito all’uso in un frutteto di arseniati di rame.
Pochi anni più tardi il problema esplose anche in Italia in coincidenza
dell’intensa campagna contro il Dacus oleae, la mosca delle olive, per mezzo di
esche avvelenate a base di arseniati. Scriveva a questo proposito nel 1906
Antonio Berlese, uno dei maggiori entomologi italiani: “Perché, oltre alla
distruzione od almeno alla ingente ecatombe di api, che avverrà senza dubbio
nelle località dove gli olivi saranno trattati col metodo ora ricordato (l’esca
avvelenata n.d.r.), si affaccia ancora un grave quesito.[...] Queste larghe
irrorazioni venefiche interverranno certo come un coefficiente nuovo e per
plaghe molto estese nel complesso dei rapporti fra endofagi e formeospiti, tra
le quali molte nocive. Non è possibile misurare a priori l’influenza di un fatto
così rilevante, ma è certo che una perturbazione profonda nel vigente equilibrio
deve accadere senza dubbio”. Preveggenza? No, solo buon senso, che tuttavia non
bastò a mettere sull’avviso di ciò che sarebbe poi accaduto. Si scatenò allora
sul periodico agricolo più importante dell’epoca, “Il Coltivatore” di Ottavi,
una dura polemica innescata nel 1906 dall’olivicoltore James Auget (LII:367-369),
proprietario dell’ex feudo di S. Felice Circeo (così si firmava), e ripresa nel
1907 dall’avvocato Ippolito (LIII: 337-338), della Scuola Agraria di Scandicci
(FI). Fra le tante cose emerse in quella diatriba vale la pena ricordare la
ragionevolezza e l’attualità di una proposta con cui L’auget nel 1907 poneva
fine alla questione (LIII: 586-590):
“.. pensiamo alle nostre api ed a tanti altri utili insetti la cui distruzione
sarebbe un disastro per l’agricoltura! Illustri sperimentatori! ponete in
vicinanza degli oliveti che trattate delle semplici arnie d’api: studiate gli
effetti della vostra miscela sulle medesime e se la riconoscete innocua allora
sta bene, ma se fosse micidiale fermatevi: se no farete come l’orso della favola
il quale per liberare un dormiente dalla mosca che lo infastidiva gli schiacciò
la testa”.
L’apicidio. Con apicidio si
intende la distruzione più o meno volontaria delle api che popolano un alveare.
Una volta si ricorreva normalmente a questa pratica per togliere il miele dai
bugni villici, dagli alveari rustici a favo fisso o dal cavo degli alberi
popolati dalle api. Con l’avvento dell’apicoltura razionale a favo mobile questo
barbaro ed inutile spreco di energie ha perso ogni ragione di esistere. Tuttavia
un’altra causa di apicidio è sorta parallelamente alla nascita dell’apicoltura
razionale (fin dalla seconda metà dell’800) in conseguenza del fatto che in
agricoltura si è sempre più sviluppata la pratica, oggi ritenuta quasi
irrinunciabile, di combattere le fitopatie per mezzo dei prodotti chimici, prima
inorganici poi di sintesi.
Purtroppo queste sostanze, per quanto vengano dichiarate attive in modo mirato
nei confronti di determinati agenti ritenuti dannosi, generalmente colpiscono un
ampio spettro di forme di vita (uomo compreso), alterando quasi sempre in
maniera irrimediabile gli equilibri dei sistemi biologici. Le api, fondamentale
strumento di produttività agricola per l’opera d’impollinazione delle colture,
risultano uno dei più evidenti e frequenti bersagli dei fitofarmaci. Così l’apicidio
continua.
L’avvelenamento può interessare i singoli individui adulti ed essere
immediatamente evidenziato dall’anomalo rinvenimento di numerose api morte
davanti all’al-veare, oppure, con effetti spesso molto dilazionati nel tempo,
indurre alterazioni dei processi metabolici a carico dei diversi componenti
della colonia in differenti momenti di sviluppo. La maggior parte degli apicidi
avvengono per:
1 - trattamenti eseguiti in fioritura;
2 - errori nei dosaggi;
3 - esecuzione del trattamento nel periodo o nelle ore sbagliate;
4 - deriva dei fitofarmaci sotto forma di spray o di polveri su colture in
fiore;
5 - contaminazione della vegetazione spontanea in fioritura durante i
trattamenti alle colture arboree;
6 - api che vengono direttamente a contatto sulla vegetazione con i fitofarmaci
o che vengono accidentalmente a contatto con contenitori, confezioni ed acque di
risciacquo delle attrezzature o con altri residui dei trattamenti;
7 - effetto sinergico letale di miscele composte da prodotti singolarmente non
dannosi o poco tossici;
8 - raccolta ed immagazzinamento in alveare da parte delle api di polline
contaminato da polveri (es.: carbaryl);
9 - raccolta di polveri o di microincapsulati in sostituzione del polline;
10 - contaminazione dell’acqua di cui si approvvigionano le api.
Da quanto sopra si comprende bene come l’apicidio non sia esente da colposità da
parte di chi esegue i trattamenti senza aver preso elementari precauzioni, per
lo più dettate dal buon senso, ed una responsabilità non indifferente grava su
coloro che indicano agli agricoltori il tipo d’intervento e le modalità per
eseguirlo.
Sulle stesse confezioni dei fitofarmaci le avvertenze “Non usare in fioritura” o
“Dannoso per le api e gli organismi utili” non compaiono sempre con la dovuta
evidenza. Anzi, l’essere per lo più confuse con una miriade di altre
informazioni di vario genere e di diversa importanza, ne impedisce un’immediata
presa d’atto da parte dell’utilizzatore.
In ultimo è da mettere in evidenza che la dichiarazione di fitofarmaci “Non
dannosi per le api” è spesso erronea.
Un’ape da sola, così come ogni altro organismo sociale, non ha significato di
esistere. Senza entrare nel merito della biologia e dell’eco-etologia
dell’alveare, vale la pena ricordare che una famiglia di api deve essere
considerata nel suo insieme come un superorganismo.
In analogia ad un organismo superiore, ogni ape può essere assimilata ad una
singola cellula del corpo e le diverse caste, al pari degli organi, esplicano
funzioni differenti.
Esemplificando, e semplificando, i fuchi e la regina (unici individui fertili)
rappresentano le gonadi dell’organismo, mentre le altre attività fisiologiche e
metaboliche sono esplicate dalle operaie delle varie classi di età che rivestono
ruoli diversi all’interno della colonia: le api ventilatrici e le api acquaiole
sovraintendono alla termoregolazione, garantendo una sorta di omeotermia; le
bottinatrici alla nutrizione e le nutrici alla secrezione; le spazzine e le
necrofore alla escrezione, mentre le ceraiole, con la costruzione dei favi del
nido, esplicano una sorta di funzione scheletrica. La covata rappresenta il
momento della moltiplicazione cellulare, mentre la sciamatura è il vero e
proprio momento di riproduzione moltiplicativa dell’intero organismo.
E’ anche presente un vero e proprio sistema immunitario per cui le api guardiane
difendono l’organismo dai pericoli esterni, mentre le raccoglitrici di propoli,
grazie alle proprietà antibatteriche di questa sostanza, salvaguardano dai più
comuni agenti patogeni. Le note capacità di comunicazione (feromoni, danze
interne ed orientamento esterno) indicano infine l’esistenza di una sorta di
sistema nervoso che mette la colonia in relazione con il mondo circostante
indagato, valutato, memorizzato e descritto dalle esploratrici. Con queste
semplificazioni si vuol far comprendere come la sopravvivenza ed il successo di
una famiglia dipendano dal mantenimento di complessi equilibri, la cui rottura
determina l’indebolimento, spesso irrimediabile, dell’intero organismo. Ad
esempio, la morte della covata comporta un rapido invecchiamento della colonia
in quanto blocca il processo di rinnovamento degli individui adulti; la perdita
della regina ne impedisce lo sviluppo, mentre alla morte delle api adulte segue
normalmente quella degli immaturi per mancanza di nutrimento e crollo della
termoregolazione.
Proprio la complessità delle interazioni permette alle api di contenere entro
limiti accettabili le avversità bioclimatiche, mentre niente può contro le
offese derivanti dall’avvelenamento da fitofarmaci e da altri contaminanti
ambientali tossici.
Il sintomo di avvelenamento più evidente è dato dal numero eccessivo di api
morte di fronte all’alveare. Tuttavia può essere denunziato da molteplici e
differenti comportamenti. Taluni fitofarmaci causano nelle api irrequietezza e
ne sviluppano l’aggressività, inducendole ad attaccare facilmente l’uomo,
oppure, all’opposto, possono far cadere nelle guardiane i più elementari segni
di difesa dell’alveare. Si possono anche riscontrare rigurgito del nettare,
spesso da associare con avvelenamento da organofosforici e piretrinoidi, o
stordimento e paralisi, generalmente da ricondurre a cloroderivati ed
organofosforici.
L’avvelenamento può portare modificazioni nelle normali attività, ad esempio
alterando il comportamento delle danze che invece di essere eseguite sui favi
all’interno dell’alveare vengono eseguite all’esterno sul predellino di volo.
L’effetto dei carbammati non è sempre immediatamente percettibile e l’azione può
procrastinarsi nel tempo: la famiglia ha un declino progressivo e la risposta è
diversa a seconda che siano colpite le adulte o la covata. Nel caso delle adulte
la morte può sopraggiungere entro pochi giorni ed un sintomo evidente è dato da
un andamento strisciante delle operaie impossibilitate al volo.
Se la covata è nutrita col materiale contaminato appena importato, lo
spopolamento avviene nel giro di poche settimane. Qualora invece il polline
venga immagazzinato, si avrà una risposta a distanza anche di molti mesi (fino
ad un anno ed oltre), allorché verrà consumato. In questo caso si ritrovano
larve e pupe morte appena fuori dall’alveare, quando ormai sfugge ogni relazione
di causa-effetto. Questi sintomi si rilevano però solo davanti all’alveare,
infatti la paralisi alle ali, la perdita di energia, gli spasmi nervosi ed il
disorientamento (sintomi di avvelenamento tipici da diserbanti) impediscono alle
api il volo e quindi il ritorno in alveare. Tutto ciò, per le bottinatrici, vuol
dire morte certa in campo senza che nessuno possa rilevarlo, comportando un
lento e progressivo spopolamento dell’alveare fino, nei casi più gravi, alla
completa estinzione della colonia.
L’ingresso in alveare di una sola bottinatrice che col polline o con il nettare
introduce sostanze tossiche, causa la morte di numerosi individui. Il fenomeno è
quindi tanto più grave quanto maggiore è il numero delle bottinatrici coinvolte.
E poiché il numero delle bottinatrici in campo è proporzionale all’intensità
delle fioriture, si suole affermare: “Più fiori, più api, più rischi”. Fra gli
effetti negativi dilazionati nel tempo, e per questo meno evidenti e quindi
anche meno studiati, merita ricordare le alterazioni che colpiscono direttamente
o indirettamente la regina e, quale unico elemento fertile, conseguentemente
tutta la colonia.
A questo proposito lo sconvolgimento degli equilibri biologici dell’alveare può
portare ad un tale stato di agitazione da compromettere la produzione di
feromoni da parte della regina che, talvolta, viene per questo sostituita dalle
operaie.
La regina stessa può essere oggetto di forme di avvelenamento lento, specie per
arseniati o carbaryl: l’ovideposizione può subire drastiche riduzioni fino a
giungere alla sterilità (diflubenzuron) e, in caso di gravi avvelenamenti da
carbammati, nel giro di un mese si può perdere il 50% delle regine di un
apiario. Questo tipo di danno è associato a vari insetticidi come arseniati,
carbaryl, dieldrin, malathion eparathion (specie se microincapsulato) e famiglie
orfane o prive di regine fertili non sopravvivono all’invernamento. Colonie
popolose e forti, essendo caratterizzate da un numero di bottinatrici molto
alto, subiscono danni più consistenti delle colonie deboli. Poiché il servizio
di impollinazione richiede proprio famiglie forti è evidente che più il
materiale soddisfa le esigenze dell’agricoltore, maggiore deve essere la sua
cura nel preservarlo in quanto particolarmente sensibile all’uso scorretto dei
fitofarmaci.
Diagnosi e comportamento in caso di apicidio. Come anticipato, il primo sintomo
di avvelenamento si rileva dall’incremento del numero di api morte nelle
immediate vicinanze dell’alveare. Infatti, anche tenendo conto che un gran
numero di bottinatrici muore in pieno campo, tuttavia una quota-parte più o meno
rilevante riesce sempre a tornare a casa, per cui la continua osservazione di
ciò che accade intorno al predellino di volo permette di tenere sotto controllo
la situazione. Alcuni principi attivi (p.a.) non sono tossici per le adulte,
mentre agiscono sulla covata in tempi differiti (fino a molti mesi se
immagazzinati col polline) in quanto la temperatura dell’alveare contribuisce a
mantenerne inalterate le caratteristiche di tossicità. Anche in questi casi l’apicidio
si può desumere dal rinvenimento fuori dall’alveare di larve o covata morta a
vari stadi e dalla progressiva riduzione del nume-ro delle adulte, la cui
popolazione non si rinnova. Tuttavia le api non muoiono solo per avvelenamenti
ed un eventuale stato patologico può mascherare un apicidio da fitofarmaci: una
famiglia già indebolita dalle malattie è maggiormente suscettibile all’azione di
un p.a. tossico, anche se la morte viene normalmente associata alla forma
morbosa e non all’azione del trattamento. Analogamente può accadere che
l’immissione nell’ambiente di un p.a. debolmente tossico o in dosi subletali
indebolisca una colonia predisponendola a soccombere per cause patologiche. E’
quindi indispensabile conoscere sempre lo stato sanitario degli alveari per
poter formulare diagnosi quanto più affidabili possibile e per non attribuire la
morte della colonia a cause errate.
Rilevamento della mortalità. In ogni colonia muoiono giornalmente per cause
naturali almeno un migliaio di api al giorno, di cui la maggior parte in pieno
campo. Un 10-20% muore però in alveare ed i corpi vengono portati all’esterno da
operaie specializzate: le necrofore. Generalmente la maggior parte viene
trasportata in volo fino ad alcune decine di metri dall’alveare, mentre un
numero minore semplicemente “spazzato” appena fuori dalla porticina. E’ proprio
a questi ultimi che si fa riferimento per valutare l’andamento della mortalità:
essendo infatti il numero delle necrofore limitato, maggiore è la mortalità, più
numerosi sono i cadaveri che si rinvengono subito sotto l’alveare. Per valutare
il fenomeno si usano tecniche differenti ma sostanzialmente analoghe per il
principio ispiratore: gabbie in rete vengono appese davanti alla porticina
dell’alveare o poste a terra subito sotto l’uscita, oppure, molto più
semplicemente, si distendono dei teli su cui è facile ritrovare i corpi delle
api morte. In via teorica potremmo stilare una scala di questo tipo circa il
numero di api morte in alveare al giorno. Tuttavia, come anticipato, in
condizioni normali circa l’80-90% delle api muore in pieno campo, mentre di quel
rimanete 10-20% a cui si riferisce la precedente scala, si ritrova sotto il
predellino di volo solo l’1%. Dall’esperienza infatti sappiamo che le api
tendono a tenere pulite anche le immediate vicinanze dell’alveare e che molti
organismi (formiche, coleotteri, vespe, rettili, uccelli ed anche mammiferi) si
alimentano usualmente delle api morte. Pertanto è necessario prestare molta
attenzione all’andamento del fenomeno con più assiduità possibile. Si è ormai
stabilito che per procedere alla ricerca di residui di fitofarmaci con accurate
analisi chimiche, sono necessarie almeno 500 api. Ne consegue che per
convenzione si assume questo numero, derivato da limiti strumentali, come
“livello di guardia”, indice di situazioni abnormi. Operativamente, qualora
questo limite venga raggiunto in una settimana sommando le vittime di due
alveari dello stesso apiario, le api morte dovranno essere subito raccolte ed
immediatamente surgelate in attesa di essere inviate ad un laboratorio
specializzato. E’ anche importante, prima di fare il prelievo, chiamare il
vigile sanitario o altra autorità competente e comunque prelevare le api morte
in presenza di testimoni e corredare il tutto con una documentazione
fotografica.
Riguardo alle conseguenze sulle api dei trattamenti con fitofarmaci, purtroppo è
difficile generalizzare in quanto, a seconda delle differenti fasce climatiche,
delle cultivar usate, della struttura del fiore, delle tecniche di coltivazione,
si riscontrano effetti diversi.
Di norma vale lo slogan “più fiori, più api, più rischi” che ragionevolmente
sintetizza il problema, tuttavia non lo esaurisce in quanto, ad esempio, la
presenza di melata, fonte zuccherina molto appetita alle api ed ignorata dagli
uomini, è un elemento che merita particolare attenzione.
In primo luogo è spesso prodotta su piante anemofile o non nettarifere. Questo
fa sì che al momento dei trattamenti non si prendano le debite precauzioni nei
confronti dei pronubi, usualmente messi in relazione solo con la presenza dei
fiori. In secondo luogo le melate esplicano un’alta azione adesivante per cui
tendono a concentrare il particolato sospeso nell’aria e portato dal vento anche
a distanze considerevoli (deriva). Un ulteriore aspetto spesso sottovalutato
riguarda il fatto che le api visitano molte anemofile per la raccolta del
polline (mais, ulivo, vite) e dalla sua contaminazione con fitofarmaci derivano
spesso gli apicidi più gravi.
Comunque conoscere la biologia ed il comportamento delle colonie è il primore
quisito per prevenire gli apicidi. La stessa età delle api determina risposte
diverse agli stessi p.a.: DDT, dieldrin e carbaryl risultano più dannosi alle
api giovani,mentre quelle vecchie appaiono più sensibili a malathion e
metyl-parathion. L’attività dell’alveare è ridotta al di sotto dei 10°C ed il
volo è possibile solo al disopra di questa temperatura. Di notte il
foraggiamento è sospeso; vento, pioggia e cielo coperto limitano in modo più o
meno marcato il volo delle bottinatrici.
Al momento del trattamento si deve tener anche conto della dislocazione degli
alveari, del periodo di fioritura della coltura e del suo grado di attrattività.
Infatti ogni coltura attrae diversamente le api nel corso della giornata: l’erba
medica, ad esempio, mantiene la sua capacità attrattiva nell’intero arco del
giorno, mentre il melone è per lo più visitato dal mezzo del giorno al primo
pomeriggio. I trattamenti durante le ore più calde, normalmente coincidenti con
la maggior attività di foraggiamento, sono generalmente i più pericolosi, al
contrario trattamenti dopo il tramonto, durante la notte o al mattino presto,
riducono proporzionalment eil livello di rischio. Anche la collocazione degli
alveari è un elemento molto importante e di norma si può affermare che la
pericolosità di un trattamento su una coltura diminuisce con la sua distanza
dagli apiari. Alveari posti all’interno dell’area trattata subiscono maggiori
perdite rispetto ad una collocazione decentrata, agli angoli o comunque
all’esterno della coltura stessa. In genere, in assenza di vento, 400 metri si
considerano la distanza minima di rispetto appena sufficiente per contenere i
danni, sempreché la coltura trattata non presenti un alto grado di attrattività.
Mentre, in assenza di altre fioriture, diventano a rischio alveari dislocati in
un raggio di 3-4 chilometri. Ovviamente il trattamento non deve mai essere
diretto contro gli alveari.
Le modalità di esecuzione di un trattamento sono funzione della formulazione
usata, pertanto ogni valutazione circa la pericolosità nei confronti delle api
deve tener conto di molteplici elementi.
In linea di principio si può affermare che più un p.a. è diluito, minore è il
rischio e questo, a sua volta, può essere ulteriormente contenuto a seconda
della natura del diluente e degli additivi.
Un esempio in proposito lo offrono le sostanze oleose (oli minerali, xilene) che
in aggiunta agli spray ne riducono la pericolosità per le api. Ciò sembra
avvenire per un supposto effetto repulsivo oppure perché facilitano il rapido
assorbimento del p.a. da parte della pianta, riducendo per i pronubi le
possibilità di contaminazione. A quanto sopra si aggiungano la dimensione del
particolato e lo stato fisico con cui un p.a. è distribuito. In questo caso si
evidenziano due fenomeni determinanti per la definizione del livello di rischio:
da un lato la possibile deriva del p.a. causata dalle correnti aeree e dalla
pressione di applicazione del fitofarmaco, dall’altro l’attitudine delle api a
raccogliere ogni sorta di materiali pulverulenti. Un prodotto subisce una deriva
tanto maggiore quanto più minuto è il suo stato fisico e quanto maggiori sono la
pressione e l’altezza a cui è distribuito. In genere i formulati granulari
risultano i meno pericolosi in quanto vengono somministrati direttamente al
terreno, non subiscono deriva e la loro dimensione grossolana non induce le api
a raccoglierli. Di contro la formulazione in polvere rappresenta forse il
maggior veicolo di rischio. La pericolosità degli spray, generalmente intermedia
fra le due appena citate, è funzione della dimensione delle particelle e della
concentrazione del p.a. Quindi l’uso di spray grossolani è normalmente più
rischioso rispetto a quelli finemente micronizzati, all’ULV (ultra basso volume)
ed all’aerosol, anche se questi ultimi (~10 µ Ø) possono subire una deriva, al
pari delle polveri, di molti chilometri. In questi casi è la rispettiva
concentrazione a determinarne la pericolosità, attribuendo il livello minore
all’ULV a bassa concentrazione. Ovviamente il rischio aumenta con l’estensione
delle aree trattate e per le eventuali ripetizioni dei trattamenti stessi.
Inoltre, pur applicando i fitofarmaci con attenzione, si possono talvolta
procurare alle api gravi danni a causa della deriva del fitofarmaco su fioriture
contigue di piante spontanee e coltivate. A questo proposito merita ricordare
che, in generale, i trattamenti aerei presentano più pericoli rispetto a quelli
da terra e l’assenza di vento diventa in ogni caso un requisito di sicurezza
inderogabile.
Un cenno meritano le esche a base zuccherina che, se addizionate con fenclorfos,
triclorfon o diclorvos, presentano un livello di pericolosità molto alto,
risultando particolarmente attrattive nei confronti delle api. A questo
proposito giova sostituire la frazione zuccherina con melasse, sicuramente meno
appetite delle bottinatrici. Si usa anche consigliare l’applicazione dei
sistemici, quando possibile, direttamente al terreno e non alle piante. Tuttavia
da un lato è noto, anche se poco studiato, il rischio per i pronubi conseguente
alla traslocazione del p.a. nel nettare, dall’altro si vanno a colpire molte
altre forme di vita presenti nel terreno. Prodotti singolarmente non tossici,
per effetti sinergici possono presentare gravi rischi se applicati in miscela.
Il fatto è stato evidenziato allorché certi acaricidi a rischio relativamente
basso per le api (propargite, dicofol, tetradifon) vengono miscelati con
insetticidi o fungicidi, anch’essi singolarmente poco o affatto tossici. E’
anche vero però che l’applicazione contemporanea di più prodotti, oltre ad
essere più economica, riduce i rischi per le api rispetto a singole applicazioni
ripetute in tempi brevi. In questo caso è infatti possibile prendere una volta
per tutte le dovute cautele per eseguire il trattamento. Un obiettivo da tempo
ricercato riguarda l’individuazione di molecole repellenti nei confronti delle
api da addizionare al fitofarmaco da distribuire. Purtroppo, almeno fino ad
oggi, non è stato possibile individuare sostanze che soddisfacessero questa
esigenza, quindi l’indicazione riportata in molti manuali di usare sostanze che
esplicano un’azione repellente nei confronti delle api appare più come un
enunciato di principio che una reale indicazione operativa.
Una particolare attenzione meritano i microincapsulati. Se i formulati granulari
appaiono i meno pericolosi per le api, i microincapsulati rappresentano il tipo
di formulazione maggiormente dannosa. Ciò è dovuto alla loro dimensione (30-50
µ) dello stesso ordine di misura del polline, contro gli 0,5-1 mm dei granulari.
Ciò fa sì che le api li raccolgano frammisti al polline stesso o addirittura in
sua vece. L’immagazzinamento in alveare comporta poi una mortalità differita nel
tempo, allorché le scorte vengono consumate dalla colonia. Fra l’altro anche
p.a. poco tossici alle normali dosi d’uso, se distribuiti come microincapsulati,
rappresentano un grave rischio in quanto l’immagazzinamento in alveare ne
aumenta la concentrazione. In questo caso i maggiori danni sono a carico della
covata, per cui si assiste ad un lento e progressivo spopolamento dell’alveare
senza peraltro notare una significativa mortalità di adulti. Da ciò deriva che
un p.a. ad alto effetto abbattente ma a basso effetto residuale può essere
distribuito con una relativa sicurezza dopo il tramonto anche in formulazioni
EC, mentre lo stesso, come microincapsulato, mantiene la sua pericolosità per
tempi lunghissimi.
In conclusione un prodotto presenta diverso grado di pericolosità in funzione
del tipo di formulazione. All’estremo superiore della scala si situano i
particolati fini (microincapsulati e polveri), mentre i minori danni sono da
ascrivere alle sostanze granulari. Rispetto all’attribuzione di un p.a. ad una
determinata classe di pericolosità (vedi oltre), in prima istanza ci si
riferisce sempre alla tossicità del p.a. stesso: l’aldicarb, ad esempio, anche
in formulazione granulare, afferisce comunque alla prima classe.
Inoltre va puntualizzato che ogni valutazione di tossicità o di dose letale (DL
50) è sempre riferita all’effetto riscontato sulle api e non ha niente a che
vedere con le classi di tossicità in cui sono convenzionalmente classificati i
presidi sanitari in relazione alla tossicità per l’uomo e per gli altri animali
domestici. Nel nostro caso la pericolosità di un fitofarmaco è legata al suo
potere abbattente, alla sua attività residuale o comunque ad effetti riscontrati
in campo legati al p.a. ed alla sua formulazione. Si è già detto che per le api
le formulazioni in polvere sono più dannose degli spray, le emulsioni
concentrate normalmente presentano un pericolo residuale minore delle polveri
bagnabili, mentre i granulari sembrano quelli meno tossici in assoluto. Tuttavia
non è possibile prevedere con certezza l’effetto tossico di un determinato p.a.
ed anche prove comparate in laboratorio ed in campo non permettono di giungere a
conclusioni univoche.
Ad esempio, nei test di laboratorio, il carbaryl appare debolmente tossico per
le api, ma dall’esperienza di campo si evidenzia un’alta tossicità differita nel
tempo e proporzionale alla concentrazione, mentre l’endrin mostra un’alta
tossicità in laboratorio che non trova sempre riscontro in campo. Gli arseniati
sono estremamente pericolosi per le api adulte, ma se vengono importati in
alveare con il polline arrecano gravi danni alla covata anche a sei mesi di
distanza, al pari del carbaryl, per questo forse l’insetticida più pericoloso
per le api proprio per il lunghissimo effetto residuale. Gli insetticidi di
origine vegetale come rotenone e piretrine sono in genere caratterizzati da un
effetto residuale relativamente breve, tuttavia si è riscontrato che il
fluvalinate importato con il polline in alveare, in seguito a trattamenti al
melo, vi permane in tracce almeno per 6 mesi, 3 volte di più che sulle stesse
mele (HAOUAR M.,DE COMIS L., REY J., 1990 - Agronomie 2: 133-137).
I cloroderivati hanno comportamenti fra loro difformi. Aldrin, eptacloro, BHC e
lindano hanno una lunga attività residuale, mentre DDT, clordano, metossicloro,
pertane, endosulfan e endrin, mostrando un’apparente bassa tossicità residuale,
da più parti sono ritenuti utilizzabili anche in fioritura purché, come vedremo
in seguito, sia impedita alle api la possibilità di bottinare. Tuttavia, poiché
se ne ritrovano tracce anche consistenti nella cera dei favi, è da evidenziare
una loro attività residuale prolungata dovuta all’immagazzinamento ed
all’accumulo in alveare. Anche gli organofosforici hanno comportamenti
differenti riguardo agli effetti residuali. Azinfosmetile, diazinone e parathion
sono troppo pericolosi per essere usati in vicinanza delle fioriture, mentre
TEPP, triclorfon, etion, tetraclorvonphos e fosalone, avendo un breve effetto
residuale, possono essere applicati anche in fioritura purché si abbia
l’accortezza di impedire alle api di bottinare.
I prodotti diradanti vengono normalmente considerati a bassa pericolosità se
usati con le dovute cautele. Comunque è forse più corretto dire che i loro
effetti sulla fauna utile sono ancora pressoché sconosciuti. Diversi prodotti
sistemici (acefate, dimetoato, metamidofos, metomil, monocroto-fos, ecc,)
vengono traslocati all’interno della pianta, ma è stata anche evidenziata la
loro pericolosità quando vengono assunti dalle api con il nettare che può
risultare contaminato.
Il dimetoato, altamente tossico in spray, presenta forse meno rischi quando
viene applicato direttamente al tronco. Il demeton metile, normalmente letale,
può essere usato con una certa sicurezza purché sia impedito il volo alle api.
E’ tutt’ora oggetto di discussione il fatto che i piretrinoidi mostrano in
laboratorio un’alta tossicità acuta, mentre in campo non sembrano rappresentare
un evidente pericolo. Ciò è stato attribuito ad una loro apparente azione
repellente, tuttavia alcuni studi hanno individuato una risposta da parte delle
api riferibile più ad un’alterazione neurofisiologica che ad un’azione
repellente vera e propria. Infatti, in seguito ad avvelenamenti in campo da
piretrinoidi, le api tendono a rigurgitare il contenuto del proventricolo ed
assumono un atteggiamento marcatamente aggressivo. Inoltre, prove di
laboratorio, hanno mostrato una netta alterazione nella percezione di odori e di
messaggi feromonici. In sintesi si tende a considerare l’azione di questi p.a.
come una forma di avvelenamento a dosi subletali (quali quelle abitualmente
usate in agricoltura) e, per spiegare l’azione repulsiva, si è ipotizzata
l’alterazione delle comunicazioni fra gli individui delle colonie (SMITH T.A.,
STATTON G.W.,1986 - Res. rew., 97: 93-120; MAMOOD A.N., WALLER G.D., 1990 -
Physiol. ento-mol, 15: 55-60).
E’ indubbio comunque che se i piretrinoidi non causano danni evidenti alle api,
tuttavia ne riducono drasticamente l’attività per un arco di tempo variabile da
poche ore a molti giorni. Poiché la loro tossicità residuale in campo è ritenuta
molto breve, è quindi opportuno utilizzarli solo nei momenti in cui il volo è
inattivo in modo da non compromettere l’impollinazione delle colture.
Gli acaricidi tetradifon, chinometionato e ciexatin sono stati indicati come
utilizzabili anche in fioritura senza arrecare gravi danni alle api, tuttavia,
come binapacryle fenazaflor, presenterebbero la minima pericolosità quando
vengono distribuiti al mattino presto o al tramonto. Per quanto riguarda il
dicofol questa precauzione non sembra però sufficiente a garantire la salute dei
pronubi, così come è importante segnalare nuovamente che, se distribuiti in
miscela con insetticidi o fungicidi anche non tossici, si manifesta talora un
effetto sinergico letale per le api.
Il diclorvos è un prodotto ad alta pericolosità, tanto che la formulazione in
strisce non deve mai essere usata in presenza di materiali apistici in quanto la
cera assorbe e ritiene facilmente i residui di questo insetticida. A questo
proposito gravi danni sono stati segnalati in seguito all’uso di favi
immagazzinati in ambienti in cui erano state utilizzate strisce di Vapona per la
loro conservazione. In generale i fungicidi non sono ritenuti particolarmente
tossici per le api, pur se talvolta si sono osservate sensibili mortalità in
seguito a trattamenti eseguiti con prodotti a base di zolfo o in miscela con
altre molecole. E qui, una volta di più, si riaffaccia l’esigenza di
approfondire il temuto “effetto sinergico”. In ultimo merita prestare attenzione
ai cosiddetti regolatori di crescita (IGR) il cui uso, spesso mirato,
interferisce però con numerose altre forme biologiche. Valga l’esempio del
fenoxicarb, apparentemente innocuo per le api adulte, comporta danni per la
covata tali da ripercuotersi successivamente anche nelle successive fasi di
crescita e quindi da danneggiare tutti gli stadi della colonia (Marletto et al.,
1992 -Apicolt. mod., 83: 209-218).
Inoltre tali prodotti procurano gravi danni anche ad altre forme dell’entomofauna
utile, contribuendo ad un’ulteriore semplificazione degli ecosistemi. A questo
proposito ogni valutazione su questa categoria di prodotti dovrà essere
subordinata ad un attento e lungo studio circa gli effetti sulle diverse forme
di vita presenti nell’ambiente in cui vengono immessi.
Una particolare attenzione
deve essere dedicata ai diserbanti. Nonostante i ripetuti allarmi ed i
molteplici avvertimenti si continua a sottovalutare la loro pericolosità per i
pronubi, tanto che la maggior parte degli erbicidi (2,4 D e suoi composti) sono
ancora abitualmente considerati non pericolosi per le api. E’ bene però
ricordare che i clorofenossiacetici, oltre a recare danni ai pronubi, sono stati
segnalati per l’azione mutagena (INFOR VIE SAINE, 1979: 25-27).
Amitrol, atrazina e simazina risultano in genere moderatamente tossici, ma si
sono registrati gravi casi di apicidio in seguito a trattamenti in fioritura
dovuti alla loro azione residuale. Applicazioni spray di MCPA sono invece sempre
pericolosissime. Se è indispensabile usare in fioritura il 2,4 D o prodotti
consimili, DNOC ed endothal, scegliere sempre la formulazione meno pericolosa ed
effettuare i trattamenti sempre nel tardo pomeriggio o dopo il tramonto.
La convinzione che i diserbanti non siano dannosi deriva dal fatto che essi
vengono per lo più usati negli stadi precoci di apparizione delle cosiddette
infestanti, quando ancora non sono visitate dalle api. Spesso tuttavia, specie
nel caso di diserbo delle arboree, i trattamenti avvengono senza tener conto
dello stadio di sviluppo e della fenologia florale delle spontanee, contaminando
così i fiori sia direttamente che per deriva. Un’altra ragione di apparente
innocuità dei diserbanti deriva dal fatto che i maggiori danni sono a carico
della covata, valutazione spesso trascurata e pertanto fenomeno difficilmente
rilevato (clorofenossiacetici, dalapom sodium, cloramben, EPTC). Da notare che i
fenossiderivati (2,4-D, ecc) oltre ad inibire la secrezione nettarifera ed
indurre un danno indiretto per la scomparsa delle fonti di cibo, possono anche
compromettere la capacità di volo delle api, presumibilmente per la
contaminazione del nettare.
I danni maggiori prodotti dai diserbanti sono comunque da ascrivere alla
distruzione della vegetazione spontanea che offre nutrimento e riparo a molti
organismi. Ed è proprio in conseguenza alla scomparsa di pascoli naturali che i
pronubi spesso si indirizzano su colture normalmente poco visitate e per questo
particolarmente a rischio in quanto oggetto di trattamenti che usualmente non
tengono conto della loro salvaguardia.
La temperatura è il
principale fattore esterno che influenza la tossicità di un fitofarmaco.
Generalmente l’alta temperatura, favorendo una più rapida degradazione delle
molecole, esalta la tossicità diretta dei p.a., mentre ne riduce l’effetto
residuale così come sembra ridurre la già limitata efficacia delle sostanze
repellenti. L’aumento delle temperature è normalmente legato ad una maggiore
durata del giorno, ma ciò comporta anche una maggior attività delle api,
esponendo così un maggior numero di individui al rischio e riducendo nel
contempo il numero di ore utili per eseguire i trattamenti. Come l’aumento della
temperatura esalta la tossicità acuta di un p.a. mentre ne abbrevia quella
residuale, un suo abbassamento ne prolunga anche di venti volte la tossicità di
campo. Ed anche l’umidità relativa, a parità di temperatura, può influire sulle
variazioni di pericolosità dei residui: ad esempio l’aridità raddoppia l’effetto
residuale del metomil.
Proprio all’effetto temperatura, o all’effetto congiunto temperatura-umidità,
sono in gran parte da ascrivere le differenti valutazioni di tossicità a cui
sono giunti i vari studi. Infatti, ricerche analoghe per quanto riguarda sia il
p.a. sia la coltura a cui era applicato, hanno spesso condotto a risultati
differenti: disulfoton, malathion, mevin-fos, tepp e forate, in clima caldo
esplicano anche un’azione asfissiante non riscontrata in climi freddi. Il
mevinfos, sempre in climi caldi, perde tanto rapidamente il suo effetto
residuale che può essere distribuito anche in fioritura, purché le api non siano
in volo. Talvolta però può accadere l’inverso per cui l’endosulfan vede esaltata
la tossicità proprio in presenza di un aumento di temperatura. Normalmente però
è verificato che l’abbassamento di temperatura esalta l’effettore siduale (carbofuran,
clorpirifos, DDT, carbaryl, mevinfos, acefate) e ciò è particolarmente evidente
per il fluvalinate, unico fra i piretrinoidi di sintesi ad apparire privo di
potere abbattente nei confronti delle api. Tuttavia, in presenza di temperature
relativamente basse, incrementa la sua tossicità del 30%. Valga quindi come
regola generale che: non devono mai essere effettuati trattamenti in vista di un
sensibile abbassamento di temperatura. Un altro aspetto da tener presente
riguarda il fatto che l’attrattività delle fioriture varia nelle diverse ore
della giornata ed è massima nei momenti di maggior emissione del nettare.
Purtroppo mancano studi approfonditi e sistematici su questo aspetto, peraltro
assai variabile per ogni coltura essendo funzione della fascia climatica e delle
condizioni edafiche. Perciò è sempre e comunque opportuno evitare di eseguire i
trattamenti in fioritura e, anche nel caso in cui si usi un prodotto non
ritenuto dannoso, evitare sempre le ore di maggior attività dei pronubi.
Il problema della tossicità
dei fitofarmaci nei confronti delle api e degli altri insetti utili nasce
praticamente con l’uso dei fitofarmaci stessi così come negli ultimi anni si
parla sempre con maggior frequenza dell’ape come insetto test per il rilevamento
dell’inquinamento agricolo. Tuttavia è un storia vecchia. Già alla fine dell’800
furono evidenti i danni da fitofarmaci per le api e per gli altri organismi
utili, allorché negli USA (1881) fu segnalato il primo caso di apicidio
inseguito ad irrorazioni su pero con arseniati di rame (Bovey P., 1947). Come
anticipato, anche in Italia, ai primi del ‘900 era scoppiata un’aspra polemica
fra tecnici agrari, apicoltori ed entomologi circa l’uso delle esche avvelenate
(miscela De Cillis a base di arseniati) messe a punto per combattere il Dacus
(la mosca delle olive) ma risultate causa di molteplici apicidi. Solo più tardi
però, fra gli anni 50 e 60, in pieno sviluppo dell’agricoltura chimica, Johansen
iniziò negli USA lo studio sistematico dei p.a. del commercio e dette avvio ad
un criterio di classificazione in funzione della loro tossicità nei confronti
delle api. Da allora molti altri ricercatori di vari paesi hanno contribuito a
sviluppare questa tematica, purtroppo senza quell’uniformità metodologica,
indispensabile per rendere possibile un’univoca comparazione dei risultati
conseguiti.
In Italia si deve ricordare che questo tipo di lavoro è stato “inventato” dal
nulla dal Prof. Vidano e tenacemente sviluppato con la collaborazione della
Prof.ssa Arzone. Oggi il “Gruppo Protezione dell’Ape”, facente capo al Prof.
Celli ma sostenuto fattivamente dal Dr. Porrini, sviluppa continuamente ipotesi
di lavoro attraverso verifiche sperimentali e di campo.
Come anticipato, vengono applicati differenti criteri di valutazione: tossicità
acuta e tossicità residuale del p.a. nei confronti delle api adulte e/o della
covata, valutazioni in laboratorio o/e in campo, pericolosità della formulazione
e delle modalità di distribuzione, effetti dilazionati nel tempo. Tuttavia,
poiché la tossicità delle diverse sostanze dipende anche da parametri biotici
(competizione delle fioriture, flusso nettarifero, attività delle api) ed
abiotici (temperatura, vento, umidità relativa), rimane realmente difficile
giungere ad una valutazione oggettiva. Dal 1996 è recepita ed operativa anche in
Italia la direttiva europea che prevede specifici test da effettuarsi sugli
organismi utili in vista dell’immissione sul mercato di nuovi presidi
fitosanitari. Varie organizzazioni, a questo proposito, hanno elaborato schemi
di valutazione della pericolosità dei fitofarmaci ed anche in Italia è stata da
tempo avviata una sperimentazione specifica. In questo ambito sono state
condotte ricerche mirate culminate con un modello di protocollo operativo e la
proposta di nuovi criteri per la valutazione del danno (Sabatini A.G. et al.,
1994; Porrini et al., 1996). In questo contesto però non si può tenere conto
delle nuove garanzie offerte per il futuro in quanto non è prevista alcuna
revisione dei prodotti già in commercio. Inoltre gli studi oggi disponibili,
ovviamente, non possono tener conto di quanto in atto. Pertanto la presente
revisione si riferisce al materiale “storico” che è stato prodotto in contesti e
con criteri d’indagine non omogenei, mantenendo comunque una validità in quanto
riguarda la maggior parte dei fitofarmaci oggi in uso. A questo proposito, in
conseguenza delle modalità d’indagine, sono stati anche applicati differenti
criteri per definire le classi di pericolosità. Gli Autori di scuola
anglosassone in passato si sono generalmente riferiti a 4 classi. All’opposto
altri Autori (fra cui alcuni francesi), proprio per la variabilità dei
risultati, si sono limitati ad individuare due sole classi, dividendo le
sostanze in pericolose e non pericolose per le api. Più recentemente Atkins e
Johansen hanno separatamente sviluppato ulteriori criteri di valutazione basati
sulla DL 50 e la RT 25, ricavati sperimentalmente. Mentre la DL 50 concerne la
dose letale di p.a. che induce una mortalità del 50% negli individui testati, la
RT 25 riguarda il tempo di decadimento del p.a. necessario per ridurre la
mortalità al 25%.Dalla valutazione congiunta dei due parametri deriva il
giudizio finale di pericolosità di un determinato fitofarmaco. Se ciò permette
una previsionalità di tipo tabellare, tuttavia non tiene conto dei molteplici
elementi (biotici ed abiotici) che incidono sulla reale pericolosità né su
effetti diversi dalla mortalità stessa.
Infatti DL 50 ed RT 25, riferendosi a dosi letali, misurano l’effettiva
mortalità degli individui, mentre molte altre conseguenze negative sono state
riscontrate a dosi subletali e sicuramente l’approfondimento degli studi potrà
riservare ulteriori sorprese. Le dosi subletali non comportano effetti evidenti
e facilmente misurabili, come alterazioni fisiologiche e comportamentali dei
singoli individui o alterazioni funzionali delle colonie. Ad esempio è stato
riscontrato che il parathion incide sull’attività di foraggiamento sia facendo
diminuire la velocità di volo che alterando la capacità di scegliere i momenti
più opportuni per bottinare. Malformazioni negli adulti sono state messe in
relazione a carbaryl e dimetoato, inoltre malathion e diazionone sembrano
abbreviare la vita media degli adulti. Il metossicloro sembra indurre una
riduzione sensibile sia nei consumi alimentari sia nell’allevamento della
covata, fra l’altro malathion e metossicloro sono stati spesso correlati ad
invasioni delle tarme della cera, tipico elemento spia di uno stato di
indebolimento delle colonie.
Ai piretrinoidi sono attribuite sia l’alterazione delle capacità di
apprendimento che della memoria. In particolare per questi ultimi, come per
molte altre molecole, si parla di un effetto “repellente”. Tuttavia sarebbe più
corretto affermare che dopo la loro distribuzione si assiste ad una rarefazione
di visite. Infatti, alla luce dei più recenti approfondimenti, è possibile
collegare questo comportamento a forme di subavvelenamento non misurabili con la
DL 50 né con la RT 25, ma invece riconducibili a fenomeni vari, dall’alterazione
delle comunicazioni in alveare alla morte delle esploratrici, elementi che
impediscono comunque il reclutamento di altre bottinatrici. In conseguenza anche
di ciò, oggi si tende a raggruppare i diversi p.a. in 3 classi. Come si vede è
scomparso il concetto di non tossicità in quanto l’esperienza ha dimostrato
l’impossibilità di escludere un qualunque tipo di conseguenze, indipendentemente
dalle condizioni ambientali o dallo stadio di sviluppo dell’ape.
Nella presente revisione ci si è riferiti a quest’ultimo tipo di scala,
analizzando criticamente i valori desunti da 33 diverse fonti bibliografiche e
riferendosi alla pericolosità dei singoli p.a. indipendentemente dalla
formulazione e dalle eventuali miscele (vedi Bibliografia consultata).
Si sono riportate anche le valutazioni relative a p.a. non ammessi nel nostro
paese o la cui autorizzazione è stata revocata o sospesa (indicati nelle tabelle
con *) in quanto ritenuti di una certa importanza (es.: arseniati, DDT, ecc).
Infatti taluni sono ancora reperibili come presidi medico chirurgici, oppure
oggetto di mercato “clandestino”. Per l’attribuzione alle 3 classi, si è
generalmente proceduto mediando le valutazioni formulate dai diversi Autori ed
arrotondando alla classe di maggior pericolosità.
Tuttavia, quando si sono trovate precise indicazioni, indipendentemente dal
valore medio ottenuto, si è privilegiato il dato relativo alla classe di maggior
tossicità. Ciò è più frequentemente avvenuto per i diserbanti, abitualmente
ritenuti non pericolosi, ma risultati invece dai pochi studi specifici avere
gravi ripercussioni sulla biologia dell’alveare e nell’ambiente. Per alcuni p.a.,
in quanto di recente registrazione, è stata messa in evidenza l’incertezza
dell’attribuzione (n) o l’accertata pericolosità per altri organismi utili (R).
In particolare, quest’ultimo elemento, in presenza di indicazioni bibliografiche
contrastanti, ha comportato l’inserimento del p.a. nella classe di maggior
pericolosità fra quelle indicate. Per quanto riguarda i 437 p.a. considerati,
solo 383 sono commercializzati in Italia da oltre un quinquennio (periodo da
ritenere troppo esiguo per escludere ricadute negative) e del 26% di questi
ultimi non se ne conoscono ancora gli effetti sui pronubi. Note utili per
contenere i danni in caso di rischio evidente di contaminazione degli apiari da
parte di irrorazioni di fitofarmaci in un dato periodo. Se non è possibile
trasferire l'apiario, effettuare la clausura. Mettere un melario vuoto ad ogni
alveare e garantire un’abbondante riserva di acqua con nutritori a tasca, spugne
intrise di acqua od opportune modifiche agli stessi melari. Sostituire al
coprifavo una griglia e tenere sollevato il tetto per favorire l’aerazione.
Chiudere anche la porticina con una griglia. Coprire accuratamente ogni alveare
con un telone con i bordi ben fissati a terra e, in caso di temperature molto
alte, bagnarlo. Per queste operazioni si prestano ottimamente gli alveari con
fondo a rete. In caso che sia inserito il cassetto sottostante, toglierlo per
favorire la circolazione dell’aria. La colonia, così prigioniera, non subirà
danni dalle sostanze tossiche anche se queste verranno a contatto con l’alveare.
Le api stesse, con la ventilazione, manterranno attivo un sistema di
circolazione dell’aria e, grazie all’abbondante riserva di acqua disponibile,
conterranno gli aumenti di temperatura in alveare. Nel caso in cui sia
disponibile un impianto d’irrigazione è possibile creare una situazione di
intensa e prolungata piovosità artificiale simulando condizioni di clausura
naturali. Tuttavia, durante le ore di luce, per maggior sicurezza sarà comunque
indispensabile chiudere con una grata la porticina dell’alveare. Dopo il
trattamento,una volta liberate le api, sarà opportuno inserire le trappole a
polline in modo da ridurne al massimo l’importazione per qualche giorno e, nel
contempo, fornire adeguati sostituti.
In caso di non poter usare questi accorgimenti, non chiudere mai gli alveari: il
surriscaldamento porta alla morte della famiglia. Inoltre i favi stessi possono
cedere fino a sciogliersi, risultando così inservibili.
L’ape, questo insetto sociale così evoluto, è importantissimo per una
molteplicità di ragioni. Oltre che produrre miele le cui proprietà sono ben note
a tutti le api sono un cardine per la conservazione della biodiversità, che
costituisce il punto di forza di ogni specie vivente, senza la quale si
creerebbero organismi deboli e incapaci di sopravvivere. E allora è forse il
caso di porre più attenzione all’ambiente in cui viviamo, perché non si può
spezzare il connubio che è sempre esistito tra uomo e terra senza subirne poi le
disastrose conseguenze. E' compito delle Istituzioni risolvere il problema, e
dei politici indirizzarne il percorso, facendo tesoro della regola: "Qualora non
si possa valutare a priori l'eventuale danno, cioè che in ASSENZA DI CERTEZZA
SCIENTIFICA SULLA INNOCUITA' di un prodotto o di una tecnologia, vale la regola
del PRINCIPIO DI
PRECAUZIONE secondo cui non si deve consentire la produzione, l'impiego o la
diffusione nell'ambiente di tali prodotti dell'ingegno umano".
Si ringrazia la
fonte:
- API E FITOFARMACI: UNA CONVIVENZA POSSIBILE, di Marco Accorti - Istituto
Sperimentale di Zoologia Agraria Cascine del Riccio, Firenze.
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