PERICOLO BSE / LE
RESPONSABILITÀ DEI GOVERNI ITALIANI
Chi ha nascosto MUCCA PAZZA
Per anni politici e produttori
hanno giurato che non correvamo rischi. Adesso emerge un'altra storia. Fatta di ritardi,
bugie e leggerezze. Ecco quello che è veramente successo
di Marco Travaglio
C'era un tempo in cui la mucca
pazza, in Italia, era poco più che un fumetto. «Nessun caso, nessun rischio, noi siamo
diversi», flautavano a una sola voce ministri, politici, scienziati, produttori, macellai
italiani. E quel tempo è durato piuttosto a lungo. Dal marzo 1996 alla settimana scorsa.
Troppo a lungo, per il procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello, che ha appena
aperto un'inchiesta su quel che si è fatto, e soprattutto non si è fatto, in questi
cinque anni per prevenire, vigilare e scoprire. Un'inchiesta che ipotizza il reato di «diffusione
di malattie pericolose per il patrimonio zootecnico della nazione» (articolo 500 del
Codice penale, carcere da uno a cinque anni). Sotto accusa, i governi dal '96 a oggi:
Prodi, D'Alema uno e due, Amato.
Guariniello la conosce bene, la storia di mucca pazza in Italia. La sua prima indagine
sulla Bse risale a marzo del '96, all'indomani dell'embargo europeo sulle carni bovine
inglesi dopo la grande epidemia in Gran Bretagna. Da allora ha aperto fascicoli, disposto
perquisizioni, scoperto reati su reati, istruito processi, ottenuto condanne, smascherato
bugie di Stato, tirato per la giacca ministri, sbaraccato ottimismi. «Mi davano del
visionario», ricorda, «dicevano che ero un piromane, che rovinavo l'economia nazionale.
E adesso, come la mettiamo?».
Lunedì scorso, all'indomani della scoperta di Pontevico, ha aperto i giornali e ha letto
l'ultimo ukase del governo: «Controlli a tappeto sui mangimi». La stessa parola d'ordine
lanciata dai governi nel '96, '97, '98, '99 e 2000. Senza mai realizzarla. Così è nata
la nuova inchiesta. Il mandato conferito alla polizia giudiziaria è preciso: ricostruire
tutte le decisioni e le non-decisioni assunte dalle autorità (governo, regione, Asl)
responsabili della salute pubblica e della tutela dei consumatori in materia di Bse dal
'96 a oggi. Quel che si sta facendo ora poteva essere fatto nel '96? E, se sì, perché
non è stato fatto? E di chi è la colpa? Il fascicolo, appena aperto, è già colmo di
fatti, dati, date e nomi. Che "L'Espresso" è in grado di anticipare.
22 marzo '96: prima epidemia in Gran Bretagna, embargo europeo sulle carni inglesi. Causa
più probabile: i mangimi con farine di carne, ufficialmente vietati dal '94. Il governo
Prodi rassicura: «Nessun rischio per l'Italia». Romano Marabelli, direttore del
Dipartimento alimenti del ministero della Sanità: «In Italia, a parte due casi di bestie
inglesi in Sicilia, mai nessun caso di mucca pazza». Il ministro Elio Guzzanti va a
"Domenica In" per tranquillizzare la nazione: «Niente allarmismi, io continuo a
mangiare bistecche». Il Cnr organizza un convegno: «Mangiate carne italiana, il rischio
di Bse per i nostri ruminanti è pressoché nullo, da sei anni è vietato alimentarli con
farine animali».
La Procura torinese non si fida e chiede al governo e alle regioni se i controlli sui
mangimi siano attendibili. Risposta unanime: «Controlli a tappeto, mangimi sicuri».
Guariniello manda ugualmente i suoi uomini a ispezionare alcuni mangimifici. Nel primo la
"Morando" di Chieri, in bella mostra nel magazzino, campeggiano diversi sacchi
con l'etichetta "Farine di carne". Idem in un'altra decina aziende, e solo
nell'area torinese. Prima, i fantomatici controlli dei veterinari funzionavano così: si
visitavano i mangimifici e si domandava ai titolari se per caso facessero uso delle
famigerate farine. La risposta era, regolarmente, «No». E tutto finiva lì.
Autocertificazione sulla parola.
Altra scoperta inquietante: alcune aziende riciclano i "carnicci" - cioè gli
scarti di lavorazione delle concerie, quei brandelli di grasso, collagene e muscoli che
restano attaccati alle pelli dei bovini- e li vendono ai mangimifici e ai produttori di
gelatine (usate per fabbricare caramelle, budini e i dadi per brodo). Pelli importate
dall'estero, Gran Bretagna compresa. Il tutto in barba a un'ordinanza governativa del 30
marzo 1995 che vieta i carnicci come possibili agenti della Bse. Il governo, pur a
conoscenza di queste attività, non era mai intervenuto. Guzzanti blocca il traffico di
carnicci e fa sequestrare decine di aziende, ma solo dopo i blitz della Procura di Torino
in due aziende del ramo, ad Arzignano Valdagno (Vicenza) e a Santa Croce (Pisa), oltre a
due fabbriche di gelatine, di Alba ed Empoli. Ma il 12 giugno, sulla Gazzetta ufficiale,
compare il testo di un decreto del nuovo ministro Rosy Bindi. Dovrebbe recepire la nuova
direttiva europea sulla Bse, ma contiene un provvidenziale errore di traduzione. Il testo
europeo legalizza «la produzione di gelatine, amminoacidi e peptidi derivanti da pelli e
cuoi» (hides and skins). Ma nella versione italiana skins diventa, anziché cuoi, «carnicci».
Un errore banale, da scolaretto somaro, che però vanifica un bel pezzo d'inchiesta e
salva le ditte fuorilegge.
Luglio '97: nuovo allarme da mucca pazza in tutta Europa. Si parla di violazioni
dell'embargo, di partite di carni inglesi infette che girano per il continente. La Bindi
rassicura: «Controlli a tappeto su tutto il territorio nazionale». Michele Pinto, suo
collega dell'Agricoltura, rincara la dose: «Si impongono nuove e forti iniziative a
tutela dei consumatori e dei produttori». Basterebbe rispettare le direttive europee.
Queste impongono agli stati membri di analizzare ogni anno almeno 235 campioni di cervelli
bovini di una certa età e con certe caratteristiche (è il test "tradizionale",
tuttoggi decisivo per confermare il test rapido). Bene, nel 1998 l'Italia ne ha analizzati
appena 35. E nel '99 ancor meno (nel primo semestre erano 12). «Ecco perché», accusa
Guariniello, «non si è mai trovato un solo caso di mucca pazza: perché i controlli
erano risibili». Lo dice anche l'Ue, che considera l'Italia un paese inaffidabile, e dal
'99 la classifica nella seconda fascia dei paesi più a rischio, alle spalle della Gran
Bretagna: categoria "C" dove la Bse è «ragionevolmente presumibile», e se non
è dimostrata è solo per mancanza di test seri. La risposta della Sanità, il 23 marzo
2000, è un disco rotto: «In Italia non si sono verificati casi di Bse. Tutti gli esami
hanno sempre dato esito negativo. L'Italia applica tutte le misure di controllo e
monitoraggio previste dalle normative comunitarie». Perciò Roma si oppone, davanti al
Comitato veterinario Ue, alla rimozione degli organi bovini a rischio: cervello, midollo e
frattaglie.
I titolari delle dieci aziende che producevano mangimi alle farine di carne, e li
vendevano a migliaia di allevamenti(oltre 100 quelli censiti dalla Procura, solo in
Piemonte) vengono rinviati a giudizio per violazione della legge sui mangimi, la numero
281 del 1963. Alcuni, i più ingenui, patteggiano la pena. Altri, i più furbi,
preferiscono il processo. Nel frattempo, può sempre accadere qualcosa. E infatti, nel
dicembre 1999, il governo D'Alema vara il decreto sulla depenalizzazione dei reati minori.
All'ultimo momento, alla chetichella, una provvidenziale manina ci infila anche la legge
281 del 1963. Risultato: tutti i mangimifici fuorilegge verranno assolti «perché il
fatto non è più previsto dalla legge come reato». Imbottire i bovini di potenziali
agenti della Bse, in Italia, non è più reato. Ma non tutti riescono a farla franca:
alcuni colpevoli miracolati verranno poi condannati per frode in commercio, e oggi - dopo
la scoperta del primo caso di mucca pazza- stanno per essere incriminati per un altro
reato: commercio di alimenti nocivi per la salute (articolo 444: fino a tre anni di
galera). Cioè per aver indotto gli allevatori, consapevoli o meno, a nutrire bovini con
farine animali, esponendo i consumatori al rischio di mangiare carne alla Bse, che può
trasmettere la variante umana del morbo letale di Creutzfeldt-Jacob.
Estate 2000: viene messo a punto il "test rapido" anti-Bse, meno preciso ma più
veloce di quello tradizionale. L'ha inventato uno scienziato svizzero, Adriano Aguzzi.
Prima si potevano testare solo le mucche con certi sintomi, ora anche quelle giovani e
apparentemente sane. La Procura e lo Zooprofilattico di Torino, che collaborano da anni,
sollecitano il governo Amato ad adottare il nuovo sistema. E il governo, a settembre, lo
rende obbligatorio per tutti i bovini di classe "R3", cioè provenienti da
allevamenti "a rischio farine": per ogni capo macellato, bisogna inviare il
cervello allo Zooprofilattico più vicino. Passano i giorni, ma all'Istituto di Torino -
centro di riferimento nazionale per la Bse - non arriva più un solo campione da
analizzare. Idem negli altri Zooprofilattici d'Italia. Che accade? Non si macellano più i
capi a rischio? È quel che raccontano molti allevatori e macellatori ai Nas sguinzagliati
dal solito Guariniello. Ma, in molti casi, è una bugia. Il pm e i suoi uomini scoprono
una quindicina di aziende che macellano i capi a rischio in gran segreto, aggirando i test
obbligatori. E avviano subito la carne sul mercato, spacciandola per sana e italiana
(anche se è di origine inglese) con cartellini contraffatti.
Il governo inglese vacilla («Abbiamo nascosto l'epidemia per troppi anni», denuncia il
ministro della Sanità). Da quello tedesco si dimettono addirittura in due. E, in
novembre, ennesima ondata di allarme in tutta Europa. In Italia i nuovi ministri Umberto
Veronesi e Alfonso Pecoraro Scanio rispondono in maniera contraddittoria. Da un lato
rassicurano: «I mangimi sono garantiti, da tempo non si usano più farine animali». Ma
purtroppo, dai rilevamenti del Nas, risulta il contrario: fra il 1996 e il 1999 il 14 per
cento dei mangimi italiani conteneva farine animali. Idem, in percentuale appena inferiore
(i dati sono provvisori), nel 2000.
Dall'altro lato, il governo estende i test rapidi ob- bligatori a tutti i bovini con più
di 30 mesi. Trentamila capi da esaminare. Una spesa enorme per lo Stato, un business da
oltre 100 miliardi l'anno per l'unica azienda che fabbrica le macchine per i test
(l'elvetica "Prionics") e, secondo gli inquirenti, una spesa forse inutile.
Anche perché - com'era prevedibile - gli Zooprofilattici non sono attrezzati per far
fronte subito al colossale impegno: molti addirittura sono sprovvisti della macchina
"Prionics", che invece -con rapidità ed efficienza che gli inquirenti ritengono
sospette- viene fornita a tempo di record a molti laboratori privati (a cominciare da
quelli di Cremonini, il colosso delle carni con sede a Modena). E questi si precipitano a
offrire i loro servigi al governo.
Secondo la Procura, poi, molti produttori premevano per i test a tappeto proprio nella
speranza che, facendoli in fretta e in condizioni precarie, non evidenziassero casi di
positività da Bse. E si trasformassero dunque da semplici e imperfetti strumenti di
accertamento in formidabili mezzi di certificazione delle carni italiane (mentre lo stesso
Aguzzi e l'Ue hanno sempre precisato che il test non può scoprire tutti i casi di
infezione, ma solo quelli in fase avanzata, e nei bovini più anziani; ora Guariniello ha
scritto al ministro Veronesi per conoscere la posizione del governo italiano). Altri, come
la Cremonini, prima ancora dell'inizio dei test, acquistavano mezze pagine sui maggiori
quotidiani per reclamizzare la «carne sicura e certificata» della Bovis Carolina, la
purissima e sanissima mucca italiana. Sicura in che senso? Certificata da chi? Anche qui,
come per l'uso improprio dei test, il reato ipotizzato è frode in commercio (articolo
515: carcere fino a due anni): cioè l'inganno dei consumatori.
E una scoperta tira l'altra. Mentre i Nas visitano la Cremonini per vederci più chiaro,
si imbattono in una strana delegazione di emissari dell'Istituto superiore di sanità. I
quali, interrogati su due piedi, spiegano di essere lì per ispezionare il laboratorio
privato, che dovrebbe presto ospitare un distaccamento di alcuni Zooprofilattici oberati
di lavoro. In pratica, è la privatizzazione dei test, con una certa confusione tra
controllore e controllato. Di chi era l'idea? Del governo? Del commissario di governo per
la Bse? Il pm lo vuole sapere. Ma forse il tema è un tantino superato. Anche perché la
"mucca 103" da Pontevico non è una perfida vacca inglese. È un' italianissima
Bovis Carolina, probabilissimamente contaminata da mangimi alle farine di carne. E
macellata, udite udite, chez Cremonini.
ringraziamo L'Espresso |