Le ragioni del business
Sedici anni di voluta disinformazione dietro
l'emergenza della mucca pazza
E' pazza la mucca, o lo sono allevatori, produttori di farine animali e controllori? Rifacciamo la storia dell'ultima emergenza. E' il 1985 quando viene scoperta negli allevamenti inglesi la Bse o encefalopatia spongiforme bovina. Undici anni dopo la comunità scientifica ha la certezza che possa contagiare gli uomini con la variante di Creutzfeldt-Jacob. Ma solo con l'esplosione dell'emergenza europea nel 2001 scatta l'allerta. Nessuno ha cercato di fermare la catena del contagio iniziata dalle pecore, arrivata ai bovini e infine agli uomini. Il business ha vinto su prevenzione e controllo sanitario e sull'informazione corretta ai consumatori: basti pensare al rigido black out informativo sull'entità reale del rischio, alle campagne di disinformazione attraverso notizie ufficiali che privilegiavano le versioni più tranquillizzanti.
E' emblematico il documento dell'Unione europea in cui, di fronte alla prima emergenza Bse, il 12 ottobre 1990 si suggeriva la disinformazione come strumento per tranquillizzare l'opinione pubblica. Il grande traffico di animali, il notevole valore economico del settore (26mila miliardi l'anno la stima del prodotto lordo vendibile in Italia) ha di fatto reso prevalenti le ragioni commerciali e produttive, anche quelle illegali. E' stata permessa per anni la produzione e somministrazione di farine di carne (con la sola clausola dell'esclusione di quelle provenienti da altri ruminanti) ai bovini, trasformandoli da erbivori in carnivori.
Nel 1997 sono state proibite tutte le farine di animali ma era perfettamente legale tenerle in deposito negli allevamenti e chi può giurare che degli allevatori non le abbiano più usate? Non sono state rispettate le regole dell'embargo (ne sanno qualcosa gli allevatori che hanno partecipato ai blocchi alle frontiere).
Altri paradossi sono legati alla ricerca scientifica e ai test. Oggi i kit sono prodotti da 3 aziende, una svizzera, una francese, una irlandese e in Italia si utilizza il test Prionics (costo 120 mila lire); ma la ricerca nel mondo è stata quasi inesistente al punto che negli animali si effettua solo la diagnosi su quelli morti e i test rilevano la malattia nel cervello del bovino solo in presenza di grandi quantità di prione. Non sono stati sviluppati sistemi diagnostici precoci validi in vita, così da poter eseguire uno screening sugli animali a rischio e stabilire con precisione quanto la malattia sia diffusa e calcolare il rischio effettivo per l'uomo.
L'Istituto zooprofilattico di Torino, per mancanza di personale, non fa ricerca ma solo diagnosi - e poche, solo 180 in 11 mesi. La forma patologica è ancora poco conosciuta, non è del tutto chiaro perché il prione potrebbe causare la malattia per via digerente dal momento che, trattandosi di una proteina, dovrebbe essere distrutto a livello gastro-enterico. Non conoscendo bene il meccanismo di diffusione della Bse, non possiamo sapere quel che avviene tra la contaminazione del virus e lo sviluppo della malattia e quindi non si può effettuare vera prevenzione ma solo imporre misure che hanno effetto di tutela.
Anche per questo, il rischio per gli uomini di ammalarsi è diventato un valzer di cifre: passa da 1 su 4.402.985 alla stima di alcuni scienziati che già nel 1996 calcolavano come a fronte di oltre 1 milione di bovini infetti ci si deve preparare ad una vera epidemia con un calcolo da 80.000 a 230.000 possibili vittime umane in Europa. E visto che ormai Usa, Canada, Giappone e Australia rifiutano il sangue di donatori che abbiano soggiornato negli ultimi anni in Europa per paura di trasmettere il morbo di mucca pazza, se viene formulato pubblicamente il timore che il sangue umano possa trasmettere il virus è ancora più grave che non ci siano mezzi di ricerca per trovarlo in quello dei bovini. Non essere in grado di riconoscere i bovini sieropositivi non permette di identificare tutti gli animali ammalati.
I controlli, si difendono nei ministeri, sono difficili perché il settore è invaso dall'illegalità e da speculatori di basso profilo, dominato da una confusione spesso creata ad arte dagli stessi operatori. Di conseguenza, come rileva una relazione della Commissione europea, la rete di controlli dell'Ue sembra rispondere più a esigenze di forma che di sicurezza della popolazione. Così si spiega l'import-export di bovini molto a rischio senza controlli veri, o l'abuso di farmaci e ormoni e di farine animali negli allevamenti intensivi: ha fatto il giro del mondo la storia delle farine animali irlandesi prima vietate poi riabilitate e vendute sottocosto, o l'autorizzazione data anche in Italia agli impasti a base di carcasse di vacche anziane e più esposte al contagio, senza nemmeno la rimozione delle parti a rischio.
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